Pubblicato in: cultura della sicurezza, incidenti, valutazione dei rischi

Cos’è per voi la sicurezza?

Per quanto possa apparire una questione meramente filosofica, quasi tutti i miei corsi di formazione iniziano con una domanda: «Cos’è per voi la sicurezza?».

Provateci se vi capita (ammesso che già non lo facciate)…

L’art. 2 del D.Lgs n. 81/2008, quello delle “Definizioni”, riferisce cosa debba intendersi per «Pericolo», «Rischio», »Prevenzione», ma non ci dà una definizione di «Sicurezza». Quella che potrebbe avvicinarsi di più è, forse, la definizione di «Salute», intesa come «stato di completo benessere, fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità».

Tecnicamente, da questa definizione emergono due aspetti rilevanti:

  1. Trattandosi di uno “stato”, esso è soggetto ad evoluzione.
  2. L’assenza di malattia o infermità non è condizione sufficiente per affermare che l’individuo goda di uno stato di buona salute.

Lo “stato” di salute, evidentemente, è influenzato da caratteristiche soggettive dell’individuo, ma anche dalle condizioni al contorno. Non potendo il datore di lavoro incidere più di tanto sulle prime, quello che può fare è agire sulle seconde, le condizioni presenti sul luogo di lavoro. Tuttavia, si pone un problema non indifferente di prevedibilità degli stati futuri. In sostanza, ci si chiede se, mantenendo invariate le condizioni al contorno, quelle che al momento sembrano garantire al lavoratore il mantenimento del suo stato di buona salute, quest’ultima sarà garantita anche nel futuro.

La risposta è rigorosamente: NO!

Direi che è abbastanza ovvio. Per esempio, il datore di lavoro monitora, attraverso la sorveglianza sanitaria, lo stato di salute dei lavoratori. Ma il fatto che questi godano di un ottimo stato di salute (oggi), non implica che il lavoro sia sicuro. Un’analisi accurata dei rischi, potrebbe rilevare che, se venissero mantenute quelle condizioni di lavoro, lo stato di salute potrebbe averne pregiudizio. Dovremmo dire piuttosto che, nonostante le condizioni con cui viene svolto il lavoro, i lavoratori (oggi) godono di un ottimo stato di salute.

In sostanza, attraverso la valutazione dei rischi, la sorveglianza sanitaria e altri strumenti di monitoraggio, il datore di lavoro può fare una fotografia della «salute» dei lavoratori nella propria azienda, ma non ha alcuna certezza che l’assenza di malattie o infermità sia correlata con le misure di prevenzione e protezione attuate (punto n.2 di cui sopra).

Riassumendo, in presenza di una malattia o infermità correlabile con il lavoro, noi abbiamo la certezza dell’assenza di una condizione di sicurezza in azienda, ma in assenza di malattie o infermità non possiamo dire nulla in proposito (sto semplificando. In realtà esistono anche altri indicatori, ovviamente, ma se anche questi tacciono, il discorso è identico).

Regola aurea quando si parla di sicurezza: assenza di prove non è prova di assenza.

Tornando alla domanda iniziale, ascoltando le risposte dei partecipanti al corso, alla fine si arriva sempre lì: la sicurezza viene definita come assenza di esiti indesiderati, come incidenti, malattie o infortuni o assenza di rischi o pericoli.

In pratica, la sicurezza è definita come assenza di qualcosa.

Questa definizione, però è strana, quantomeno nelle sue implicazioni epistemiche (scrivere questa parola è l’unico motivo per cui pubblico questo post). Ciò significa, infatti, che, in presenza di qualcosa – attraverso la manifestazione “sensibile” di un incidente di una malattia, di un infortunio o la rilevazione di un pericolo o la valutazione di un rischio – è possibile sapere che manca la sicurezza. In compenso se non ci sono manifestazioni o se il pericolo non viene rilevato e il rischio valutato (per esempio perché occulti), non si può affermare con sicurezza che vi sia sicurezza.

Queste banali considerazioni, sono a mio avviso, il paradigma della strategia prevenzionistica attuale e il suo stesso limite.

Ci viene chiesto e adottiamo, per garantire la sicurezza, misure proattive (individuazione dei pericoli, analisi e valutazione dei rischi) o reattive (indagini degli incidenti, infortuni, near-miss), ma c’è sempre un gigantesco problema di fondo: i rischi che si valutano e gli incidenti che accadono sono solo un’infinitesima, minuscola, irrilevante frazione dei rischi realmente presenti (e non rilevati) e degli incidenti che non sono accaduti, ma che sarebbero potuti accadere e che, forse, accadranno.

Continuare a proporre un modello di gestione della sicurezza sul lavoro che passi attraverso la valutazione di tutti i rischi, può forse soddisfare il nostro patologico bisogno di certezze e darci la sensazione di aver fatto tutto il possibile per garantire la sicurezza.

Col senno di poi, ad infortunio avvenuto, sarà semplice trovare il rischio non adeguatamente valutato e, sulla base dell’obbligo di valutare tutti i rischi, affermare la colpa consistente nel non essersi impegnati abbastanza.

Forse, però, sarebbe il caso anche di andare un po’ oltre questo paradigma. Non si tratta di negare l’importanza della valutazione dei rischi, ma riconsiderarne l’efficacia quale strumento principale per la prevenzione.

Pongo una domanda (ammesso che ci sia ancora qualcuno all’ascolto): cosa succederebbe se, oltre che analizzare i – relativamente – pochi casi in cui le cose sono andate male (incidenti) o in cui potrebbero andare male (rischi), analizzassimo anche come sia possibile che, nella stragrande maggioranza dei casi, le cose vadano bene (nonostante tutto)?

 

 

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