Pubblicato in: cultura della sicurezza, incidenti

Scommetto 1€ sull’esistenza di Dio

La teoria delle probabilità risale alla seconda metà del XVI secolo.

Ora, questa è una roba che, tutte le volte che ci penso, mi manda in pappa il cervello: prima di quest’epoca le persone non assegnavano un senso matematico alle possibilità che accadesse una cosa anziché un’altra.

Lanciavano un dado a 6 facce? Non si ponevano proprio il problema che ogni faccia avesse una probabilità di uscire pari a 1/6. No, erano gli dei (o Dio) a determinare esito, frequenza degli esiti e tutto il resto. Non intuivano che dietro c’era una matematica e che tale matematica era particolarmente interessante da conoscere quando i possibili eventi non erano equiprobabili. Semplicemente non ci pensavano. Pazzesco, eh?

La tradizione fa a risalire a Pascal la nascita del concetto di probabilità. A Pascal era stato posto un quesito da un giocatore d’azzardo che cercava un modo per vincere matematicamente ai dadi. Stavano viaggiando in carrozza e quello lì gli fa: «Ho tirato il dado 4 volte e mi è uscito un 6. Questo significa che, se gioco con due dadi, su 24 tiri mi deve uscire un doppio 6. Monsieur Pascal è matematica e, come lei mi insegna, la matematica non è un’opinione. E invece non succede… I dadi sono truccati?».

Il ragionamento non fa una piega!

Ma in effetti, anche Pascal (ed era Pascal, eh… Uno di cui hanno calcolato dovesse avere un quoziente intellettivo di 185!)  lì per lì non riesce a trovare una risposta e allora che fa? Scrive a Fermat una lettera che, più o meno, doveva suonare così:

«Caro Fermat,
come stai? Qui tutto bene. Hai visto il mio ultimo teorema? Stai a rosica’, eh?
Non te la prendere, sto scherzando: permalosone! (N.d.R. ancora non avevano inventato le emoticon e dovevano stare molto attenti a quello che scrivevano).
Senti un po’… ho avuto un’ideuzza che potrebbe farci diventare ricchi… Si tratta di risolvere un problemino semplice, semplice e in due ce la possiamo fare: secondo te, quante volte devo lanciare due dadi per essere sicuro che esca un doppio 6?

Ah, Ferma’… Quando scrivi i teoremi, ricordati di metterci anche la dimostrazione…
Cordialmente, tuo Blaise».

A forza di scambiarsi lettere con Fermat, Pascal alla fine trova la soluzione e mette su le basi della teoria delle probabilità.

E grazie a Pascal (e Fermat) possiamo, oggi, parlare di rischio come di una funzione associata a probabilità e gravità. Pensate a come sarebbe stata la definizione di rischio all’art. 2, comma 1, lett. s) del D.Lgs. n. 81/2008 senza il contributo di Pascal: «esito di una punizione divina che si manifesta in forma di raggiungimento del livello potenziale di danno per una persona».

In tre precedenti post (primo, secondo e terzo) ho cercato, comunque, di rappresentare come provare a fare valutazioni di rischi non misurabili – perché non se ne conosce la probabilità reale del loro manifestarsi – sia velleitario: nel mondo reale fare una valutazione dei rischi basandosi sulle probabilità è come scommettere sugli esiti di un dado truccato.

Persino nel dominio dei «fatti noti conosciuti», quello nel quale sappiamo cosa può accadere, non abbiamo valori di probabilità da associare ai vari esiti.

Come uscirne? In effetti non se ne esce, ma possiamo provare a darci un metodo per migliorare l’approccio…

La questione deve essere spostata dall’idea di poter fare una previsione della probabilità che un evento accada, alle decisioni da prendere quando si ipotizza che qualcosa possa accadere (i fatti noti conosciuti) o quando non si hanno sufficienti elementi su come stiano le cose (fatti ignoti conosciuti).

Uso sempre Pascal per spiegare il ragionamento, rifacendomi alla sua scommessa sull’esistenza di Dio (nota come «scommessa di Pascal»).

Per un agnostico, l’esistenza di Dio è un fatto ignoto conosciuto: sa di non sapere se Dio esista o meno e sa di non poterne dimostrare l’esistenza o il contrario, sospendendo il giudizio. Pascal gli dice (la mia versione moderna):

«Agno’, ma perché ti fai ‘sti problemi? Pensa alla salute… Scusa eh, supponi che Dio esista: che ti costa? Sì, per qualche decina di anni dovrai andare a messa tutte le domeniche, il venerdì non dovrai mangiare carne, ecc. ecc. Sono d’accordo, potrebbe essere una bella rottura. Se Dio non esistesse avresti perso un bel po’ di tempo inutilmente. In compenso, se Dio poco, poco esiste, c’hai guadagnato la vita eterna e neanche immagini che vita fanno lassù… altro che atti impuri…
Vedi agno’, la faccenda non è tanto se non credi e Dio non esiste: al massimo c’avrai guadagnato qualche bistecca il venerdì e ti sarai potuto ammazzare di atti impuri nel corso della tua vita (ok, non è poco).
Quello su cui devi ragionare è il worst case, il caso peggiore: Dio esiste, ma tu non c’hai creduto. Secondo te, Lui come  la vede la faccenda che tu abbia passato questi decenni ignorandolo, frequentando donnacce e votando comunista? Lo sai com’è fatto: come minimo ti schianta all’inferno senza pensarci due volte, nel braccio dei diavoli sodomizzatori e degli antivaccinisti».

In questo ragionamento (un po’ tirato, a dir la verità, ma che comunque ha buttato le basi della teoria dell’utilità attesa), Pascal ha completamente tolto dalle variabili la faccenda del calcolo delle probabilità di eventi di cui non si possono calcolare le probabilità, limitandosi a valutare le conseguenze.

Noi possiamo anche non sapere quali possano essere le probabilità del verificarsi di un dato evento negativo, ma siamo piuttosto bravini a ipotizzare le possibili conseguenze. In effetti, però, il problema è che anche le conseguenze possono essere molteplici e non è che uno possa sempre riferirsi al worst case, perché i costi sarebbero insostenibili.

Per andare incontro alle richieste del legislatore, che ci impone di fare comunque una valutazione dei rischi, possiamo allora provare a dare più peso alla nostra capacità di immaginare le conseguenze (che in linea di massima sono note e immaginabili), che associare delle probabilità (che ignoriamo completamente), senza affidarsi necessariamente al caso peggiore.

Da qualche anno a questa parte utilizzo una classica matrice 4 x 4 (come quella che praticamente tutti usano nei loro DVR), ma nel calcolo del rischio, anziché usare la relazione R = P x D, utilizzo:

R = P x D2.

Pensate alle classiche espressioni quali-quantitative che vengono utilizzate per determinare P… Tipicamente, P = 1 viene assegnato a (cito a memoria): «Non si sono mai verificati eventi simili. Il verificarsi dell’evento susciterebbe stupore…». In sostanza, nella maggior parte dei casi, chi utilizza questi criteri dovrebbe quasi sempre assegnare P = 1.

Valutando in modo non lineare il danno, invece, eventuali errori di valutazione determinati dall’impossibilità di assegnare valori esatti alla probabilità associata al verificarsi di un determinato evento (in particolare sottovalutazioni) verrebbero compensate, senza ricorrere al worst case.

Ho visto molti criteri di valutazione in questi anni per determinare il rischio: chi aggiunge nella relazione la formazione, chi i DPI, chi l’esperienza, ecc.

Tutti criteri ragionevoli, ma che, a mio modo di vedere, aumentano solo le variabili non perfettamente note che, nell’ambito di un processo decisionale possono portare a conclusioni errate sul da farsi.
Per questo, consapevole anche dei giganteschi limiti che esistono in questi processi epistemologici, io preferisco limitare al minimo gli elementi su cui concentrarmi.

La speranza, tuttavia, è che prima o poi potremo smettere di prenderci in giro con questi inutili giochetti, riprendendoci la nostra intelligenza del rischio.

12 pensieri riguardo “Scommetto 1€ sull’esistenza di Dio

  1. Io da un po’ di anni ho risolto il problema: non uso più il PxD, uso un metodo relazionale-qualitativo.
    Come giustamente dici, associare un numero a P ed un numero a D è perfettamente inutile, un esercizio di stile che non ha alcun senso se non strettamente matematico e fine a se stesso.
    Giorgio

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      1. Ciao Andrea,
        sto in giro e non posso approfondire troppo. Molto ma molto sinteticamente, premesso l’uso delle norme per quei rischi “misurabili” (es. ISO rumore, niosh per mmc, ecc.), per tutti gli altri (tipicamente i rischi infortunistici), ove non derivanti da violazioni di norme (nel qual caso il rischio è inaccettabile senza opportunità di mediazioni), l’associazione di un eventuale indice di rischio, se necessario, è assegnata dal valutatore senza alcuna modellazione matematica, ma esclusivamente in relazione all’analisi di tutte le variabili a contorno, che possono essere poche o molte, da riportarsi in dettaglio nella relazione (con criterio descrittivo), arrivando a concludere per assenza di rischio o presenza di un rischio che si va a ponderare con l’uso di “aggettivi” piuttosto che con l’uso di numeretti, in funzione dello spirito di osservazione, esperienza e competenza del valutatore stesso e nelle more di tutte le variabili prese a riferimento. Il principio di base, a mio parere, resta simile per gli aspetti “cognitivi”, ma c’è l’enorme vantaggio di evitare di dover decidere per P=2 o D=3 che ha un notevole margine di errore (direi pure 100% 😂), da cui non ne scappi avendo dato elementi “misurati” sebbene non misurabili (un giudice potrebbe chiederti, perché proprio 2? Come si risponde?). In più, l’uso della “descrizione” (perizia forse è il termine giusto) ti consente di poter usare molte più variabili da cui “il peso” che dai ad un determinato rischio è relativo al contesto appena analizzato. È invece per certo che un R=4 derivante da P=2 e D=2 non potrà mai essere uguale ad un altro rischio R=4 derivante da un P=1 e D=4. Insomma ogni rischio è diverso e andrebbe pesato diversamente, sarebbe come voler misurare ogni cosa usando solo una bilancia. L’associazione qualitativa, ove serva, tramite lo strumento della “perizia”, ha una enorme potenzialità e ti tira fuori, quanto meno, dalla discrezionalità di aver usato proprio quei numeretti e non altri (in caso di infortunio, vallo a dimostrare che P era davvero 1 o 2, e cosa avrebbe cambiato? Forse l’ordine di attenzione? E se si fosse aumentato l’ordine di attenzione, si sarebbe potuto evitare?). In ogni caso, il principio di base, risottolineo, è che nell’ipotesi di rischi da violazioni di legge, non c’è ponderazione, il rischio è istantaneo e inaccettabile a prescindere. Se mi manca un parapetto, trovo tra l’altro inutile andare a ponderare il rischio che tizio possa cadere, dando numeri a lotto. A me no che non “tolgo il pericolo del parapetto mancante” (es. riparandolo oppure sbarrando o chiudendo il passaggio), il rischio è palese e andare a moderarlo perché magari si suppone che la probabilità sia bassa (passerella usata poco, P=1), creerebbe l’alibi per non intervenire immediatamente secondo l’ordine dei numeri (ed in caso di infortunio, quella matrice potrebbe creare enormi problemi, proprio sulle misure da attuare). Allora piazzo rischio comunque inaccettabile con misure da farsi immediatamente, a prescindere dal fatto che, in descrizione, si sia dettagliato che magari l’accesso è occasionale.
        Non so se mi sono spiegato.
        Ciao
        Giorgio.

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      2. Grazie Giorgio (anche per la dettagliata spiegazione), per quanto mi riguarda ti sei spiegato benissimo!
        Quanto da te descritto era esattamente il mio approccio prima che mi convertissi al quadrato del danno.
        Consapevole (avendolo anche espresso sul blog) della sostanziale inaffidabilità dei classici criteri per la valutazione dei rischi, i motivi principali per cui ho deciso di considerare un cambio di approccio sono stati:
        1) maggiore comprensibilità per il cliente dell’uso di numeri discendenti da una matrice. Alcuni dei clienti più grandi, infatti, erano già adusi (in contesti diversi dalla sicurezza) all’uso di questo strumento;
        2) togliere qualunque alibi all’idea che le scale di priorità definite nel DVR fossero completamente basate sul nulla.
        Grazie ancora e buon lavoro.

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      3. Su 1) capisco, ed è pure vero, quindi posso immaginare che un cliente non si legga approfonditamente tutto, ma ritengo che si possa superare parlandone per bene seduti in ufficio con un bel caffé davanti. Sono troppo convinto dell’estrema aleatorietà del PxD per considerare un maggiore beneficio ottenuto, apparentemente, dalla letturina della battaglia navale in DVR… e credo che il metodo relazionale sia vincente ove le aziende siano comunque piuttosto virtuose, dove l’analisi del rischio residuo è spesso restituente un rischio ben gestito (se non irrilevante), per il quale vai ad implementare le misure di tenuta sotto controllo piuttosto che veri e propri adempimenti mancanti e potendoti concentrare sulle vere criticità, che per queste organizzazioni, sono spesso sempre le stesse. Nei casi disperati, o comunque dove ci sono tanti problemi, il metodo PxD sembra più pratico, nel senso che forse si fa molto prima nella parte redazionale del DVR, rispetto allo spirito critico da dover usare e ponderare nei vari scenari di rischio e quindi dipende, purtroppo, anche da quanto te lo pagano. E non è sempre facile.
        Su 2) io risolvo con il Piano di attuazione e miglioramento (appositamente “splittato” per diversificare quello che va fatto “ex lege” rispetto a quanto sia da considerare davvero un “miglioramento”), ove in accordo con il datore di lavoro o il dirigente di settore, sulla scorta delle analisi svolte e commentate, si implementa un programma di intervento che ovviamente tiene conto di quanto relazionato e consigliato dal RSPP (o consulente esterno). Purtroppo a volte le “priorità” reali sono diverse da quelle che ti chiedono di relazionare, in funzione dei budget disponibili. Per cui se hai 100 lire disponibili ma hai 200 lire di interventi urgenti, anche su questi devi comunque scegliere, sebbene la norma non ponga queste possibilità, per cui può capitare che un DDL sviluppi un piano “di facciata” che non è detto coincida con il “piano reale”. Questa è una criticità a prescindere dal metodo che si usa che a volte mi capita di commentare con i facenti funzione in azienda.
        Saluti
        G.

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  2. Ciao Andrea, seguo con gioia ed apprensione le tue news. Gioia perchè sei una persona molto colta e profonda. Con apprensione perchè getti il valutatore di rischio nel profondo pozzo dello sconforto e della depressione. …..noi che abbiamo sempre creduto in Dio e in R=PxD :-)…..ah come soffro!!

    D al quadrato? mmmmhhh, la morte al quadrato mi terrorizza.
    Andrea, la formula è molto più semplice.
    Nella moderna concezione del RSPP, perfettamente inserito nel contesto economico attuale di mercato, anche il rischio segue una logica di mercato.

    Le regole sono queste (ti erudisco):
    1. Quale è il rischio massimo scrivibile nel DVR, senza che il Datore di Lavoro revochi il mio contratto? Lo si trova per tentativi sucessivi. Trovato? Bene, passiamo al punto 2.
    2. Trovato il rischio, assegna 2 fattori P e D in modo che il risultato sia =R (non facile per un Perito come me, ma mi sono fatto delle tabelline di aiuto).
    3. Ricorda che il DVR deve avere almeno 70 pagine e deve pesare almeno 6 etti (lavorare sulla dimensione dei caratteri e sull grammatura della carta) altrimenti non è un DVR serio.

    Un abbraccione al garnde Andrea
    ciao
    Renato

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    1. Ahahah, la modulazione della valutazione del rischio in funzione del contratto: R = P x D x Y, dove Y è una variabile compresa tra 0 e 1.
      – Y = 0 corrisponde a quei contratti con datore di lavoro particolarmente suscettibile, che ti ha chiamato come consulente dopo aver chiesto il curriculum anche ad un omicida seriale ed ad uno stupratore di ottuagenarie;
      – Y = 1 si assegna ai contratti nei quali il datore di lavoro ti ha chiamato come consulente, ma in realtà ti desidera carnalmente.
      Hai vinto!

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  3. E’ fatta! Assicurati di brevettare la nuova formula del rischio.

    Ok per D al quadrato, per cui, per esempio: 40 giorni di inabilità diventano quasi 4 anni e mezzo, ma ….. la morte al quadrato….come è fatta? Non riesco ad immaginarmela caspita, però deve essere veramente una cosa indicibile…
    ciao 🙂 🙂 🙂

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    1. Mmmmm… il senso non è esattamente quello che dici tu 🙂
      Però, seguendo il tuo ragionamento per il quale eleviamo al quadrato non il valore attribuito al danno, ma l’esito del danno, per elevare al quadrato la morte c’è bisogno di un defibrillatore: ti ammazzi, ti riportano in vita e poi ti danno il colpo di grazia…

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